"Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?" (Joseph Conrad)

lunedì 7 settembre 2009

ogni tanto me lo ripasso..

(da “bolina” n. 154, maggio 1999)
Intervista al progettista triestino,tra un piatto di polenta con ragù, un bicchiere di vino e chiacchiere sulle forme di scafi di ieri e di oggi - di Giorgio Casti

Giancarlo, andiamo a Trieste a farci maltrattare da Sciarrelli?». II destinatario della richiesta è Giancarlo Toso, già comandante del bellissimo Grande Zot. Toso lo scorso anno ha venduto la sua barca e, dopo dieci anni ai Caraibi (charter e scuola), ora vive a Venezia. Accetta di fare con noi una visita al celebre progettista Carlo Sciarrelli. «È una buona occasione per incontrare un amico, parlare di barche e visitare la sua casa-museo», dice Giancarlo Toso che ricorda in queste pagine di quando chiese al progettista triestino di disegnargli la barca.
Sciarrelli in realtà non maltratta gli ospiti, è solo un po' burbero, un sanguigno buono che si accalda nelle discussioni, ma è sempre disponibile e parlare di barche. È un piacere ascoltarlo e apprendere qualcosa della sua enorme competenza di storico dello yachting moderno.
Arriviamo a Trieste all'ora di pranzo e Carlo Sciarrelli, con nostra lieta sorpresa, si esibisce come cuoco in una polenta con ragù. Piatto ottimo e abbondante, accompagnato da un bicchiere di buon vino rosso. Con Sciarrelli non si parla subito di barche, ma di televisione, cinema, costume.
Poi, quasi casualmente, il discorso va verso la nautica, gli scafi moderni da regata («Più tela c'è più spingono, tanto sotto c'è il bulbo...»), quelle da crociera («Barche di carta velina»), quelle in ferro («Ottime barche, purché con la tuga in legno»), gli interni («Si desiderano sempre due cabine in più del lecito»)... e così via.

Bolina: Chi sono i clienti di Carlo Sciarrelli?
«Sono signori che hanno già avuto una barca e che ne cercano una più bella. Poi ci sono quelli che mi dicono che chiuderanno la fabbrichetta e che, con moglie e bambino, andranno a Capo Horn. Non è vero, mentono. Comunque, siccome per andare a Capo Horn è meglio che la barca non scappi all'orza a ogni onda, io gliela faccio. Però poi, una volta che hanno la barca, navigano solo nel Tigullio, e si lamentano perché la barca è troppo stabile di rotta e in porto non gira su se stessa, come le altre».

B.: Ma è vero che gli armatori vogliono tante cabine?
«Vengono qui con in testa cinque cabine per una barca di tredici metri. E quando io dimostro loro che tre cabine vengono male e che due è il numero giusto, se la prendono con me: "Mi hai portato via tre cabine!", dicono. Cabine che non c'erano, erano solo nel loro sogno. Vengono con un sogno eccessivo e, di fronte alla verità, se la prendono con me...».

B.: Come deve essere la barca che va bene per navigare e ha una buona abitabilità?
«Intanto bisogna dire che questa barca deve avere il pozzetto più a poppa possibile e che si deve accedere alla scala per scendere sottocoperta facendo un solo passo».

B.: Ma il pozzetto deve essere profondo?
«Basta che le panche siano al livello del fianco. L'importante è che si entri sottocoperta con un solo scalino».

B.: Andiamo sottocoperta: com'è il quadrato?
«La saletta è la zona collettiva e uno se l'arrangia come vuole. Siccome la barca è larga, diciamo 4,20 metri, e la saladeve essere un quadrato, quattro per quattro, nei primi due metri ci mettiamo quello che vuole l'armatore, carteggio, armadio per le cerate e, nell'altra parte, il tavolo con i divani».

B.: Dopo la saletta, verso prua, ci sono le cabine?
«Dopo la saletta è meglio che ci sia un corridoio con le porte a destra e a sinistra, porte che non devono combinare perché non è bello che stando in una cabina si veda l'interno dell'altra. E il meglio sarebbe un bagno per cabina...».

B.: Per lo studio degli interni lei inizia a progettare dal quadrato?
«No, parto dallo schema che mi fanno i clienti. Sì perché i clienti vengono sempre con uno schizzetto degli interni che, se realizzati, porterebbero a una barca alta il doppio del giusto. L'errore che fanno è di disegnare gli interni sulla pianta della coperta e non del pagliolo».

B.: Le forme larghe delle barche di oggi derivano dalle cabine doppie di poppa?
«Gli interni influenzano soprattutto le tughe e il bordo libero alto; poi, per smagrire la barca, fanno una bella riga blu, e via... Se a una barca stretta e fonda, si mettesse una delle brutte tughe di oggi, avrebbe più spazi di una barca larga e piatta. Le barche di adesso sono più abitabili solo grazie alle sovrastrutture, non per le linee dello scafo».

B.: Il disegno della poppa ha sempre caratterizzato le barche. Perché?
«Le barche hanno la prua quasi sempre uguale, è la poppa che cambia, che fa moda. Prendiamo una barca banale, di quelle di oggi, che in velocità mettono la prua sotto e che servono cinque persone in piedi, dietro, per raddrizzarla: una roba un po' precarietta. Poi uno guarda le foto di una volta, per esempio quelle di Beken, e vede che quelle barche, navigando con vento forte, tenevano il naso alto: avevano la poppa più fine e più fonda».

B.: Cosa vuole dire "poppa più fine e più fonda"?
«Di sezione profonda, non di sezione piatta. Perché la sezione fonda tende a essere "succhiata" in basso mentre quella piatta viene spinta in alto. Ciò non vuole dire che la barca di Soldini si può fare con la poppa fine: ha la poppa larghissima e verso prua è come un cuneo. Poi siccome la barca non pesa niente, appena sbanda va tutta fuori dall'acqua e il fianco diventa dritto. Per fare quei raid la barca di Soldini è magnifica, funziona. Io comunque cerco di fare barche che devono stare in rotta e non è l'abilità di un timoniere con una ruota di due metri diametro che le deve tenere dritte».

B.: La stabilità di rotta si ottiene con sezioni profonde?
«Solo con poppe non larghe e fonde di sezione. Cosa ormai scomparsa, perché oggi è più importante che la barca giri sul posto in un marina quando va da un ormeggio all'altro, piuttosto che andare dritta. Del resto per secoli si è fatta la poppa fine e che dà rotta alla barca. Adesso, con le alte velocità di un trimarano, si sono accorti che è così, perché quando naviga a 25-30 nodi la "scarpa" sottovento dev'essere giusta, infatti la fanno come un pescetto».

B.: Com'è la poppa della sua ultima sua barca?
«Ci sono poppe che sono durate dei secoli e io mi ispiro a quelle. Il clipper Cutty Sark doveva impiegare sessanta giorni dall'Australia all'Inghilterra. Guai se scappava all'orza! Aveva le vele quadre e gli alberi l'avrebbero portato a collo facendo cascare tutto. Spaventoso! Erano barche che avevano la sezione maestra un po' più a prua della metà. Quando questo tipo di barche in velocità sbanda, tende a poggiare, mentre le vele buttano in orza. Dondolando tra un'orzatina e una poggiatina, senza scappare mai controvento, potevano navigare all'infinito. Joshua Slocum, con lo Spray, sembrava poco credibile quando disse che per tutto il Pacifico era stato al timone solo un quarto d'ora. E invece era andata proprio così: quel tipo di barca non vira mai, neanche se si vuole. Il mare la butta in poggia e le vele un po' in orza. E così, dondolando, naviga all'infinito».

B.: È la magia della stabilità di rotta, indispensabile per un lungo viaggio con equipaggio ridotto?
«Esattamente».

B.: Lei ha progettato molte barche da viaggio?
«Sì, diverse. Ora ce n'è una di sedici metri in costruzione da Mancini vicino a Venezia, un po' pesante ma magnifica. Le barche si fanno secondo il materiale e il peso, non è che uno ha una forma e questa la può adattare a tutto. Secondo il pesoviene fuori la forma».

B.: Ma a proposito del ferro, lei tempo fa diceva che è un materiale da "pezzenti"...
«Le barche di ferro sono serie e magnifiche. È la gente che ama il ferro che è miserabile e pezzente: vuole la tuga di ferro, le paratie di ferro, gli alberi di ferro, vuole tutto di ferro. E allora il cantiere deve essere il più scadente, quello del peschereccio, coperta di quattro millimetri perché quel cantiere non sa saldare la lamiera di tre...».

B.: Quindi il ferro va bene, ma bisogna rispettare i pesi. È così?
«Ormai le riviste hanno inventato lo yachting parlato che però non ha nessun aggancio con le barche. Il linguaggio è stato affinato nei millenni per dire le bugie. La verità non ha un linguaggio. Oggi c'è il colore dell'albero parlato, c'è la carpenteria parlata, etc. Poi, gravissimo, c'è la coperta e la tuga di ferro, parlata. E un falso clamoroso, perché nel passato nessuno si era mai sognato di fare una coperta in ferro».

B.: Lo scafo in ferro potrebbe avere la coperta di legno?
«La coperta "deve" essere di legno. È una bestialità mettere ferro con sotto il legno degli interni imbullonato. Una volta la coperta era di teak imbullonato sui bagli, quando si imbullonava; adesso che si incolla, si mette un foglio di compensato con sopra il teak. Semplice».

B.: Che incidenza ha il peso della coperta in ferro, rispetto a una uguale in legno?
«Il ferro ha il doppio del peso del legno. Se aggiungo 500 chili in coperta devo aggiungere 500 chili in chiglia. E la barca pesa un metro cubo di più. E dove lo metto il metro cubo? Lo metto in fondo. Allora perde stabilità, perché diventa più fonda e quindi devo mettere ancora più zavorra, ancora più peso... un'escalation che non finisce più. Per cinquecento chili in coperta la barca arriva a pesare duemila chili in più!».

B.: La coperta in ferro dà l'idea di impermeabilità...
«Appunto, è la "barca parlata". Certo, resiste agli iceberg ma non resiste al sole, all'umidità, alla pioggia. Ma soprattutto non va bene a vela!».

B.: Visto che il ferro è un materiale poco costoso, si pensa che vale la pena usarlo anche per la coperta...
«Una volta, quando si decideva di costruire una nave economica, come un bastimento per portare il carbone, si faceva in ferro ma con la coperta in legno, non in ferro! ».

B.: E comunque lei continua a progettare barche in ferro...
«Certo, per il cantiere Mancini di Venezia, il quale impiega l'acciaio 510 che consente di usare lamiere un terzo più fini di una normale AQ42. La barca di sedici metri che sta facendo ha il fasciame di tre millimetri: lo spessore giusto».

B.: In effetti i tre millimetri "parlati" sembrano pochi...
«Sentite questa. Mi telefonò tempo fa un signore da Roma: "Sciarrelli - mi disse - lei che sa tutto, conosce il Wyvern II del 1943?". Ricordavo di avere letto di quella barca su un vecchio numero di Yachting World. Insomma, mi raccontò di avere comprato tale barca in Inghilterra e che il Rina non voleva immatricolarla perché aveva il fasciame "ridotto" a soli 3 millimetri. Andai a vedere sulla rivista i disegni del progetto: lo spessore del fasciame era di 3 millimetri! Era una barca ribattuta, costruita in tempo di guerra e dopo 57 anni non era andata sotto di un micron della sua misura originaria. Eppure nella testa del Rina non era concepibile che una barca in ferro potesse avere lo spessore di 3 millimetri. È il frutto della nautica parlata».

B.:Ma quanto costa uno Sciarrelli oggi?
«II tipo di barca come quella in costruzione in questo momento da Carlini costa 75-80 mila lire al chilo».

B.: Dieci tonnellate, ottocento milioni?
«Oggi le barche da sette miliardi si vendono come il pan biscotto. Quelle da duecento milioni, invece, sono dure da piazzare. Se uno vuole fare una barca di nove metri e dice "Me la faccia fare su misura, bella, marina, pesante", costa 350 milioni. Poi si accorge che quella industriale della stessa misura, una schifezza di plastica che sembra carta velina, costa 280 milioni; in queste misure non c'è niente che fermi il prezzo inferiore: vince sempre. Mentre su misure più grandi, chi è disposto a spendere un miliardo e mezzo non vuole spendere meno di quanto spenderebbe per la barca di serie più cara. Quando la differenza è piccola conta molto, quando è grande non conta niente».

2 commenti:

  1. FE NO ME NA LE

    Come si fa ad entrare in quadrato con un solo scalino?

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  2. bhè Gaetano. di fronte al compianto Maestro....... riverenza assoluta! (e ovviam non porre a me domande che dovresti porre soltanto a lui!)

    RispondiElimina

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